Rilevazione e segnalazione delle aree soggette ad abbandono rifiuti, indagini congiunte con altre Forze di…
L’Editoriale. Razzismo, integrazione e diffidenza. Quando sono gli Italiani che devono imparare.
28/05/2015Questo articolo è stato letto 8372 volte!
Sui temi di razzismo, integrazione e diffidenza dell’altro, stamattina facevo una riflessione.
Sono partita da un episodio che ha visto protagonisti me e Marco a gennaio, in Friuli.
6 gennaio. Sulla strada per il pranzo con tutti i familiari uniti per l’occasione, ci fermiamo ad una tabaccheria per acquistare delle giocate del super enalotto da regalare alla tombola casalinga inventata da mio zio, in un paesino friulano di qualche migliaio di abitanti, dove c’è un ufficio postale, un tabacchi, due bar (che si fanno concorrenza) e uno di tutto. Poco il resto.
Entro. Davanti a me il proprietario è indaffarato con due persone. Una è una vecchia mendicante, nemmeno troppo mal messa, che lamentosamente gli vuole per forza vendere dei vasetti di fiori. Il tabaccaio, che va avanti a dire no da un po’, ora è visibilmente scocciato.
Al lato della signora, il proprietario serve un anziano, un po’ goffo, un po’ rincoglionito, poverino, che si sbaglia tre volte tra soldi, giocate e sigarette, con buona pazienza del tabaccaio che, mentre continua a dire no alla signora, cerca di fare capire all’anziano quanti soldi deve dargli.
Ad un certo punto, così di botto, la mendicante raccoglie le sue cose e se ne va, lasciando persino la porta aperta e dandomi una spinta.
Io e il tabaccaio ci guardiamo allibiti e poi lui fa qualche commento della serie: ‘E qui tutti i giorni uno, una volta le piante, una volta l’uncinetto, ma io devo lavorare per guadagnare i soldi’ e così via.
È a metà di un’altra frase di queste, quando il signore anziano fa: “Ma il portafoglio dove l’ho messo?” e inizia a cercarselo addosso, nella borsa, sul bancone.
Io, dopo 15 anni di gialli e polizieschi, subito dico: “Ma non è che l’ha preso quella signora?” E il tabaccaio dice che ha le telecamere nel negozio e possiamo subito rivedere quello che è successo. Nel frattempo entra anche Marco e gli spiego cosa è accaduto.
Tutti insieme guardiamo il filmato e si vede chiaramente che la signora afferra svelta il portafoglio, lasciato un attimo dal signore mezzo rincoglionito, per poi filare via di corsa.
Allora ci dividiamo i compiti. Il tabaccaio chiama i Carabinieri e io e Marco usciamo a cercare la signora che non può essere lontana.
Dopo un po’ la rintraccio nel bar vicino, che esce con una grossa brioche (lì non si chiamano cornetti).
Le dico: “Signora, scusi, può tornare un momento in tabaccheria? Il tabaccaio vuole parlarle.”
Lei, attraversa la strada di corsa verso di me, rischiando di essere investita dall’unica auto in giro oltre alla nostra, e mi fa: “Io non ho fatto niente, io il portafoglio non l’ho preso!”
E io: “Signora, ma io non ho parlato di nessun portafoglio!”
E lei: “No, no, io non ho fatto niente!”
E io: “Ok, le va di tornare un momento in tabaccheria?”
E lei si avvia con me. Arrivati dentro, c’è un confronto serrato tra lei, il signore anziano e il tabaccaio. Questi le mostra il video, ma lei capisce poco o fa finta di non capire.
Fa una scena madre, si toglie il cappotto: “Volete perquisirmi? Volete che mi spogli? Ecco, vedete se lo trovate il portafoglio!”
Io le ridico che nessuno vuole toccarla e che del portafoglio ha parlato lei per prima, il che è strano. Il tabaccaio la avverte che stanno arrivando i carabinieri.
Allora lei se ne va, mentre entra un altro cliente. Il signore anziano grida di chiuderla dentro al negozio, ma io gli dico che non si può fare, è sequestro di persona.
Usciamo e io e Marco la tratteniamo fuori al negozio, parlandole un po’. In effetti, non ha così voglia di scappare, non sa probabilmente dove andare. Le dico se vuole chiamare qualcuno, magari ha un complice a cui ha passato il portafoglio. A Roma, sui bus, si fa così.
Ma lei no, inizia una tiritera contro gli emigrati che ci tolgono il lavoro e invece noi ce la prendiamo con lei.
Poi mi dice: “Voi signorina che siete napoletana, lo sapete, no, come vanno questa cose!”
E io: “No, veramente sono romana. Lo so come vanno queste cose signora, per questo le dico che forse è meglio che questo portafoglio esca fuori. Pazienza per i soldi (c’erano dentro una 50ina di euro), ma il signore ha il bancomat, i documenti. Lei si lamenta, ma ha visto il signore? È un povero pensionato che ha tanti problemi, che vuole fare la guerra tra poveri?”
Insomma, va avanti così per una decina di minuti, in attesa dei carabinieri, con io che cerco di convincerla a confessare. La signora è contenta di parlare con me, continua a dire che sono napoletana e alle mie precisazioni continua a rispondere “Vabbè sempre del sud siete, io sono di qui, sa?” E racconta di fatti e gente del paese, di come gli immigrati rubino agli italiani e io ascolto, paziente. Annuisco e provo a convincerla che se il portafoglio esce fuori, magari il signore ritirerà la denuncia.
Arrivano i Carabinieri. Passano davanti a me e la signora, fuori alla tabaccheria, e mi guardano male. Io saluto cordialmente e dico: “Prego, il signore è dentro, la signora resta qui con me.” Anche Marco è dentro a tranquillizzare il signore anziano.
Il secondo Carabiniere mi guarda peggio del primo. Sospetto che non abbiamo gradito la chiamata nella mattinata di festa.
All’arrivo dei Carabinieri, la signora si agita di più e alla fine, mentre sono dentro, mi dice: “Ma se io le dicessi che ho visto un portafoglio per terra, lì, dietro l’angolo, sotto quella macchina parcheggiata?”
Io esulto, entro dentro e dico: “La signora ha detto dove ha buttato il portafoglio, venite ragazzi,” ai due Carabinieri.
I due, sempre accigliati, mi dicono di restare con la signora e uno va a cercare il portafoglio, l’altro resta con noi e inizia a prendere le generalità della signora, dopo aver sentito la mia versione, con me che calcavo il fatto che la signora aveva collaborato e aveva dimostrato buona volontà.
Lui: “Signorina, qui non siamo a Napoli, ora ci pensiamo noi.” Io mi giro verso Marco e sbotto a ridere. “Aridaje, ma voi non distinguete un romano da un napoletano?”
Quello mi guarda ancora più truce, prende la signora e inizia a trascinarla per un braccio verso la volante. L’altro arriva con il portafoglio, a quel punto iniziano il film western. Strattonano la signora, le urlano di stare zitta, le strappano la borsa e gettano il contenuto sul cofano della volante, le dicono cose tipo “Zitta, devi stare zitta. Cos’è sta immondizia? Ma ti lavi che puzzi?”
E io rimango scioccata. Marco, intuendo che sto per partire all’attacco, mi trascina via. Io inveisco contro quei due coglioni che fanno i vendicatori con una vecchietta alta un metro e cinquanta.
Poi, in macchina, Marco mi dice: “Guarda che quando sono entrati i Carabinieri in tabaccheria, pensavano che la ladra fossi tu, perché hanno detto che avevano sentito l’accento napoletano!”
Da qui abbiamo capito che se sei del sud, sei sempre napoletano, in Friuli, e sei tu il colpevole quasi sicuramente, in quanto napoletano e quindi ladro.
Questo in Italia, con tutti i protagonisti italiani.
Noi siamo già razzisti tra noi.
Abbiamo già dei preconcetti tra di noi.
Come possiamo dire di non essere razzisti con gli altri?
Le abbiamo subite queste discriminazioni all’estero, ma ancora le subiamo in Italia. Poi, per rivalsa, le facciamo subire anche agli altri.
Se vi capita, se vi va, vi consiglio di vedere un film bellissimo, recitato da attori magistrali, che racconta una storia vera. Il film si chiama ‘Marina’ ed è la storia di Rocco Granata, quello che cantava la celebre canzone ‘Marina, Marina, Marina, ti voglio al più presto sposar…’.
Calabrese, emigrato da bambino in Belgio per raggiungere il padre minatore, negli anni ’50, non nel 1800, ha passato l’infanzia a sentirsi chiamare ‘zingaro’, perché gli italiani così erano considerati. Ha dovuto suonare con documenti falsi, perché in Belgio gli italiani potevano fare solo il mestiere dei padri, cioè i minatori. Il Belgio li tollerava solo per quello.
Ha dovuto subire un accusa di stupro, perché italiano, e quando si scoprì che il vero responsabile era un ricco rampollo fiammingo che rimase impunito, gli venne detto dalla polizia: ‘Che volevi? Tu sei italiano, quello è belga!’
Viveva nelle baracche, in mezzo al fango e al degrado, dove i ragazzini italiani si organizzavano in bande per derubare e molestare i ragazzini belgi fuori ai parchi. Quando il padre finalmente ottiene dalla compagnia mineraria una vera casa, cambia la sua vita e le sue compagnie.
L’integrazione si fa grazie a condizioni di vita umane, non sbattendo la gente in baraccopoli.
Chi si lamenta che i profughi sono ospitati in hotel, si lamenta anche se vivono nelle baraccopoli improvvisate ai lati delle vie principali della città, non pensando che in luoghi degradati l’uomo si degrada anch’esso. La gente si lamenta perché esistono, perché ci sono, non ci sarà mai una sistemazione che soddisferà, perché la sostanza è che non li vuole.
Come io, essendo del sud, ero napoletana per i friulani (come se questo poi fosse un danno fisico), come gli italiani erano zingari per i belgi, per noi lo straniero è solo portatore di cose negative: delinquenza, malattie, disordini.
Dare per scontato, questo è da razzisti.
Integrare lo straniero significa fargli conoscere come ci si aspetta che si comporti qui, significa insegnargli una lingua, quali sono i suoi diritti e doveri per evitare che altri italiani lo sfruttino e preferiscano usare lui come schiavo, al posto vostro a lavorare. Significa scambiare esperienze. Significa integrazione.
Integrazione non è pietà. Poveraccio, mi fai pena, ti do un tozzo di pane. Perché dopo tre tozzi di pane, il quarto che arriva sarà visto come un parassita e gli si dirà di tornarsene a casa sua. Noi abbiamo gestito i profughi e gli immigrati con queste due misure: o poveracci di cui avere una ‘pietà a termine’ o reietti da tenere lontani.
Forse è il caso di ripensare a come funziona questo Paese ed individuare le nostre falle, prendendoci le responsabilità di un sistema che per decenni ha sfruttato la guerra tra poveri e, ancora oggi, fa arricchire pochi su questo business.
Forse, prima di prendercela con chi sta peggio, bisognerebbe individuare le vere colpe e trovare un’alleanza che porti a più giustizia per tutti. L’imperativo, infatti, dovrebbe essere cercare di stare bene tutti, non ‘sto male io e allora stai male pure tu’, perché altrimenti, anche se gli immigrati cessassero di esistere da domani, noi sempre come carne da macello saremmo trattati da questo sistema.
E poi con chi ce la prenderemmo? Il nord con il sud e il sud con il nord, com’è stato fino a che non sono arrivati gli immigrati.
All’uopo, mi permetto di consigliare un altro bel film del 2011, ‘Cose dell’altro mondo’, con un cast eccezionale, che racconta cosa succederebbe in Italia se all’improvviso, così, da un giorno all’altro, sparissero tutti gli immigrati.
Un dramma vero, perché nonostante quello che la propaganda populista e le menti offuscate dall’odio vogliono farvi credere, in occidente il 70% della forza lavoro è basata sulla presenza degli immigrati, quindi anche tutta l’economia.
Pensate se non ci fossero più badanti ucraine, allevatori indiani, raccoglitori africani, muratori romeni e così via. Quanti italiani si presterebbero a fare questi lavori? Pochi e niente. Noi abbiamo studiato, ci meritiamo di più.
L’ultima frontiera di quello che può fare un italiano per arricchirsi di più sulle spalle dello ‘sporco immigrato’, ce lo riportano le cronache della scorsa settimana.
In Sicilia, non si chiamano più gli uomini (in genere africani) a raccogliere i pomodori. Troppi casini, poi questi si ribellano e pretendono contratti e diritti. Che siamo matti? Ora, si prendono giovani donne romene con figli piccoli. Facilmente ricattabili, impegnate il giorno a raccogliere pomodori con turni massacranti di 12–14 ore a 5 euro e di notte schiave sessuali dei padroni.
Per questo non si indigna nessuno. Nessuno fa cortei.
La schiavitù negli Stati Uniti è stata abolita formalmente 150 anni anni fa. In Italia non abbiamo il cotone nel 2015, ma abbiamo tante altre coltivazioni e tanti schiavi.
Pensiamoci, prima di dire che i delinquenti sono loro.
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Ho iniziato a 16 anni a scrivere sui giornali locali, per poi crearne uno, Punto a Capo, passando poi ai quotidiani e infine all’online.
Oggi, oltre a dirigere Punto a Capo Online e Punto a Capo Sport, collaboro con altri quotidiani online e dirigo l’Ufficio Stampa di Punto a Capo.
Inoltre, sono traduttrice, insegnante e Presidente della Onlus che pubblica il giornale. Faccio tante cose, probabilmente troppe, adoro scrivere, leggere e viaggiare e ho bisogno sempre di nuovi stimoli, di iniziare nuove avventure e creare nuovi progetti.
Grazie!!!
Paolo è un Carabiniere, in congedo. 😉
La “Squadra Volante” è un reparto della Polizia di Stato (riconoscibile dal distintivo con la pantera per intenderci), mentre il “Nucleo (Operativo) Radiomobile” è un reparto dell’Arma dei Carabinieri (riconoscibile dal distintivo con la gazzella). I primi arrivano con le “volanti”, i secondi con le “gazzelle”.
Il primo è presente in ogni Questura, il secondo fa riferimento al comando territoriale (Compagnia o Gruppo) di zona.
Entrambi i reparti fanno prevenzione e repressione dei reati tipicamente in “autoradio” o in moto.
Per chi volesse curiosare (senza continuare qui off-topic sul tuo articolo):
http://it.wikipedia.org/wiki/Squadra_volante_della_Polizia_di_Stato
http://it.wikipedia.org/wiki/Nucleo_operativo_radiomobile
Suppongo che Paolo allora sia un Carabiniere!
Grazie della precisazione. Sarebbe anche carino approfondire il perché l’una si chiama volante e l’altra gazzella. Mi hai dato uno spunto! Grazie, ancora. 🙂
Francesca
E allora, precisazione per precisazione (romani e napoletani) è altrettanto grossolano attribuire “volanti” — più propriamente “Gazzelle” — ai Carabinieri invece che alla Polizia di Stato! 😉
Un po’ come dire che i pompieri arrivano in ambulanza 😀
A parte i “campanilismi dell’ordine”, ottimo articolo.